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UNA DENUNCIA: DOPO 7 ANNI CANCELLATO DALLA LISTA


«Adesso che sono tranquillo, vado a cinque litri d'ossigeno al minuto. Ma mi è capitato di andare a 17. Certi amici miei sono arrivati a 20, addirittura 25. Il fatto è che la crisi, quando arriva, ti toglie l'aria e tutto, all'improvviso, si fa sfumato, difficile. Intendiamoci, paura di morire non ne ho. Ci sono andato vicino, vicinissimo: fa parte del gioco. Ho superato una sessantina di ricoveri e cinque o sei momenti davvero drammatici. E con questo? Sono qui, dove i medici mi hanno sequestrato sette anni fa mettendomi in lista per un doppio trapianto di polmone. Poi, un mese fa, se ne sono usciti belli belli dicendo che mi toglievano dalla lista: niente più trapianto.

«Come, niente più trapianto? E io, non conto nulla io? Sono venuto a Pavia perché me lo hanno ordinato i chirurghi dicendomi che avrei chiuso la questione nell'arco di sei-diciotto mesi al massimo. Da otto anni vivo incollato alla cannula d'ossigeno, faccio movimento e vado per dieci minuti al giorno sul tapis roulant per non farmi fregare banalmente dalla morte. E ora, finito tutto: grazie, se ne può andare. No, non può finire così».

Mauro Fonsa, trentasei anni dopodomani, è andato via da Porto Torres, dov'è nato, per un guaio che l'ha fatto precipitosamente emigrare: displasia polmonare. Era appena un bimbo quando l'hanno operato sapendo bene che sarebbe stata soltanto la prima tappa di una via crucis infinita. Insieme alla famiglia ha lasciato la Sardegna è si è trasferito a Pavia, vicinissimo al policlinico San Matteo. Non allontanarti troppo, l'aveva avvertito un medico, quando ti chiameremo devi essere qui in un'ora. Ci ha creduto. Inutilmente. Della lunga attesa, coltivata tra esercizi di riabilitazione e vigilanza stretta sulla vita, gli è rimasta una lettera consegnata a mano qualche settimana fa:... viste le condizioni anatomiche del torace, si ritiene l'intervento di altissimo rischio e pertanto si rende necessaria la sospensione definitiva dalla lista attiva per trapianto polmonare . La risposta arriva secca: «Se ne sono accorti soltanto ora delle condizioni anatomiche del mio torace? Si mettano l'anima in pace: non ho intenzione di andarmene, andarmene dentro una cassa da morto, fino a quando non avrò concluso la faccenda». Mauro dice tutto questo dal divano che riempie il salotto-cucina di un minuscolo appartamento del centro storico. Gliel'ha messo a disposizione un'associazione di solidarietà (Emmaus) che affitta a prezzo politico: 400 euro al mese. Ma non è questo il problema: Mauro non ha bisogno di collette («fortuna che non sono nato povero»). Si sente schiacciato da un potere in camice bianco «che mi ha buttato via come si fa con l'immondezza». Si accalora mentre parla, e le parole si fanno però pian piano più lente, insidiate da un affanno che diventa presto fiato corto.

«Mio padre faceva il carpentiere. Era bravissimo. Quando è stato il momento, non ha esitato a mollare tutto. Lui e mamma hanno deciso in un paio d'ore. Era il Duemila: a Torino gli avevano spiegato che il mio caso era unico in Italia e che in Italia solo a Pavia avrebbero potuto risolverlo. Mi hanno mandato lì in ambulanza e così mi sono ritrovato davanti a un santo patrono della medicina italiana, il professor Mario Viganò. Visita lunghissima la sua: per la valutazione, dicevano con un tono grave e solenne. La valutazione è fatta da una serie di test per capire quante probabilità hai di uscire vivo da un trapianto. Alla fine mi hanno detto sì, imposto un domicilio coatto e avviate, come dicono loro, le procedure. Col tempo sono diventato quasi parte dell'arredamento del reparto di Pneumologia, dove sono stato ricoverato e assistito decine di volte con grande scrupolo. In fondo, si trattava di conservarmi nelle condizioni migliori in vista dell'appuntamento in sala operatoria. Nel frattempo, ho avuto molte crisi, pensato qualche volta di non farcela, guardato con apprensione i miei familiari. Osservatemi: ho un buon colorito, gestisco bene la mia malattia, vado a passeggio con l'ossigenatore portatile, conto molti amici, mi diverto come un ragazzo qualsiasi. Perché io non sono e non mi sento un invalido. Vorrei solo che si capisse per quale motivo non mi sono mai arreso. Cattolico certo, ma non ho mai chiesto miracoli. E nemmeno al suicidio ho pensato, neppure una volta: vivo quasi serenamente e ho intenzione di continuare a farlo ancora per un po'. Basta che mi rispettino. So bene che per loro io, e tutti gli altri malati del resto, siamo soltanto un numero di letto e una cartella clinica».

Il responsabile del Centro trapianti del san Matteo è il professor Maria Andrea Darmini, genero di Viganò. Risponde al telefonino dopo molti squilli: sono in sala operatoria, ci sentiamo più tardi. Più tardi il suo cellulare squillerà a vuoto sei volte. Il giorno successivo non cambia nulla, per un po' il telefono è staccato, per un altro po' non dà risposte. Di pomeriggio, finalmente, la voce di Darmini supera con un sussurro la cornetta: sono in riunione all'università, mi chiami tra un'ora. Dopo un'ora, un'ora e mezzo, due, due e mezzo il telefono resta orfano. Al quinto tentativo, Darmini si fa sentire per un breve messaggio: sono in ospedale, richiamo io dopo le 20. Inutile proporgli un incontro-lampo in ospedale: ah, siete qui a Pavia? No, meglio di no. Mi faccio vivo io tra poco. Da quel momento si sono perse le sue tracce. Darmini, ovvero il chirurgo che ha liquidato Mauro, non può o non vuole farsi sentire. Con un gesto di elegante compostezza e distacco, sceglie il silenzio. Muto, scomparso.

«A Porto Torres suonavo la batteria con un gruppo, i Round about. Round about sono le aiuole spartitraffico. Un nome come un altro. Abbiamo una casa e una bella campagna attorno. Eppoi c'è il mare. Sono tornato a vederlo, dopo sette anni, l'altra estate: in acqua fino alla vita, bellissimo; oltre non mi posso spingere perché i polmoni potrebbero non farcela. Questo per dirvi che sono uno come tanti, a parte gli effetti collaterali del cortisone: che ti decalcifica le ossa, ti sbriciola i denti, ti abbassa la vista. Pazienza, ne vale la pena in cambio di un trapianto. La malattia, in ogni caso, fa mancare l'aria ma non aiuta a diventare scemi. Era tutto premeditato, l'ho capito soltanto adesso. Mi avevano classificato come malato terminale, aspettativa di vita massimo due anni. Dunque andavo operato il più presto possibile. Mi chiamano una prima volta nel 2001, corro in ospedale, resto sveglio tutta la notte per sentirmi dire dopo che potevo tornare a casa, non erano gli organi giusti per me. È successo lo stesso l'anno dopo: due volte, sempre a vuoto. Intanto trapiantavano gente in condizioni peggiori delle mie. A un certo punto sono iniziate le pietose bugie, notizie che mi arrivavano sempre di seconda mano: nella lista d'attesa non c'erano più una decina di nomi ma si arrivava addirittura a 500, quindi canta che ti passa. Poi mi hanno raccontato che siccome ho i polmoni diseguali servivano due donatori e non uno. Mi domando: perché tutto queste cose non me le hanno prospettate subito?»

Nessun incontro ufficiale per moltissimo tempo col professor Darmini. Il quale ha affidato a uno dei suoi assistenti il compito di consegnare a Mauro la lettera di licenziamento. Interrogativo numero 1: quand'è che il paziente è diventato inoperabile? Soprattutto, perché si è aspettato tanto per comunicarglielo, tenuto conto che questa lunga anticamera gli è costata almeno 150 mila euro? Gli avvocati Antonio Conti e Gabriella Pinna, del foro di Sassari, stanno spulciando le carte per decidere se avviare un'azione legale. Sono stati violati i diritti del malato?, perché non hanno consentito che Mauro si mettesse nelle mani di altri chirurghi? Nella casa di via Digione, un passo dalla chiesa di san Francesco, la rabbia non raggiunge mai toni alti: ma fa male lo stesso. A travolgere tutto e tutti, adesso, è però il desiderio di fuggire, tornare a Porto Torres. Mauro vive solo con la mamma (il padre è morto, due fratelli abitano lontano): c'è un silenzio troppo rumoroso intorno. Nel frattempo si è fatto avanti uno specialista milanese, altre possibilità di salvezza arrivano forse da Parigi. Che fare?

«Fosse per loro, dovrei stare a guardare e morire tranquillo. Tanto l'attesa è finita, cos'altro mi resta? So molto bene che mi sto mettendo di traverso, che sto dando noia a clinici potentissimi. Non me ne importa: voglio che tutti conoscano la mia storia, voglio andare a raccontarla in televisione, voglio un risarcimento da dare ai poveri, voglio che vengano sospesi dall'Ordine dei medici, voglio che ammettano di avermi trattato come tanti: malati da buttare".

 

 

 

 

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